L’ESTATE DI GIACOMO – Alessandro Comodin
La docu-fiction di Alessandro Comodin, vincitrice del Pardo D’Oro al Festival del Film di Locarno, è un prodotto inconsueto, lontano da etichette e rigidi inquadramenti, persino avulso dal concetto di cinema in senso stretto; il racconto è scarno e senza una struttura narrativa lineare, maturato da persone e fatti reali cari al giovane regista friulano.
E’ lo stesso Comodin a spiegare di avere conosciuto Giacomo, diciottenne nato sordo, “quando era un bambino, era il fratellino del mio migliore amico. (…) La sua storia mi è apparsa come una fiaba moderna”. L’allusione del regista è all’operazione chirurgica che restituisce l’udito a Giacomo, il mezzo che restituisce uno spicchio di percezione mancante al ragazzo, che gli apre nuovi orizzonti. E lui, vivace e intraprendente, li coglie tutti, regalando un raro ritratto di esplosione vitale e di approccio ingenuo (nell’accezione più positiva) ai fatti della vita.
La pellicola segue un duplice itinerario: quello fisico che porta Giacomo (Zulian) e l’amica Stefania (Comodin) – disinvolti come solo degli attori non professionisti, paradossalmente, possono essere – a condividere le attività e i semplici divertimenti di una giornata all’aria aperta nella natura; l’altro, simbolico, che rappresenta un percorso sensoriale, di consapevolezza e di introduzione alla vita adulta, l’appassimento della fanciullezza. Con piani-sequenza (talvolta un po’ trascinati) che seguono i due giovani protagonisti attraverso il gioco, le baruffe, le piccole e delicate allusioni sessuali e la co-costruzione di un’intimità, Comodin racconta una storia -come tante- in un modo che pochi riuscirebbero a padroneggiare e a cogliere nei risvolti più intimisti.
Poco importa che le scelte stilistiche siano a dir poco inusuali e che a livello visivo il film risulti scomodo, “grezzo e ruvido” come definito dallo stesso autore. Nonostante le sequenze lunghe e ridondanti, che convergono inevitabilmente in un ritmo narrativo frenato, L’Estate Di Giacomo è il meraviglioso ritratto di un’intima iniziazione. Comodin ottiene il suo fine con mezzi tortuosi ma si conquista il personale (lieto?) fine sprigionando nell’aria un fondo di malinconia, di timida leggiadria, come una traballante poesia recitata a memoria da un bimbo. E’ la crescita, l’amicizia, la riflessione sulla vita attraverso una prospettiva a prova di retorica.
Picco di questa vena è l’impacciato e dolcissimo ballo improvvisato dai due ragazzi a una festa di paese, simbolo di quello che il film (per tutta la sua durata) cerca di essere: un approdo malfermo alla maturità, permeato di un realismo lontano, lontanissimo dal cinema costruito. Perché parafrasando Stefania “la felicità può derivare proprio dalle piccole cose”.