I COLORI DELLA PASSIONE – Lech Majewski
Vi sono due tipi ben distinti di cinema indipendente, il primo, quello che arriva più facilmente al grande pubblico, è quello che punta su plot scarni ma dal forte appeal, girato e curato in modo diverso dai film hollywoodiani tipo, capace di donare l’illusione di assistere a tutt’altro tipo di cinema mentre, in realtà, si ha davanti il solito contenuto diversamente infiocchettato.
Il secondo tipo invece è quello sperimentale, quello che se osa, lo fa davvero, andando fino in fondo contro ogni tipo di logica commerciale, risultando come vero cinema libero da qualunque vincolo. Il cinema del “creatore” polacco (che così ama definirsi per l’estrema versatilità che lo porta dal dirigere film, a scrivere poesie, a dipingere dipinti) Lech Majewski appartiene senza dubbio a quest’ultima categoria, in quanto i suoi film non mirano neanche lontanamente all’aspetto commerciale, ma sono fatti di una materia cinematografica “pura” come un bimbo … se effettivamente di materia cinematografica si può parlare.
The Mill and the cross, diventato per i cinema nostrani I colori della passione, è un film costruito su un’idea a dir poco straordinaria: realizzare la trasposizione cinematografica del dipinto di Pieter Bruegel “La salita al calvario” del 1564. L’idea proviene dallo storico e critico americano Michael Gibson che, dopo la visione di un film di Majewski, decide di mandargli il suo ultimo libro, intitolato proprio The mill and the cross, un ‘analisi approfondita (di oltre duecento pagine) del famoso dipinto di Bruegel. Majewski ne rimane affascinato, tanto da volerne fortemente realizzare un’opera cinematografica che vede la luce dopo tre anni di realizzazione e diversi fallimenti.
Il film di Majewski non è e non può né vuole essere un film semplice né riguardo i contenuti (soprattutto nella parte finale), né riguardo la consistenza stessa del film. L’opera dura novanta minuti dove regna il silenzio, la prima frase arriva a circa mezz’ora dall’inizio del film proprio per evidenziare l’idea che sia Bruegel che Majewski vogliono trasmettere al fruitore tramite l’omissione della parola: siamo soli e viviamo anche i grandi avvenimenti dell’umanità in un desolante silenzio. Un esempio chiave è la crocifissione di Cristo.
La vera novità risiede nella rivoluzione tecnologica data dall’impronta visiva, ogni inquadratura è costruita da più livelli (che vanno da un minimo di quaranta, ad un massimo di centoquarantasei) di cui molti sono veri e propri dipinti, sui quali sono applicate le figure umane oltre ad altri elementi reali. Il risultato è stupefacente, e per tutto il film rimaniamo a bocca aperta davanti ai meravigliosi tabloux vivant costruiti dal regista chiedendoci, inquadratura dopo inquadratura, come abbia fatto a realizzare un lavoro così minuziosamente preciso in ogni suo dettaglio. Questa meraviglia cresce con lo scorrere dei minuti in quanto, durante i primi minuti, il silenzio sembra non mantenere le redini del ritmo più di tanto e l’espediente visivo sembra voler solo distrarre lo spettatore dal contenuto, tuttavia a poco a poco si riesce a mettere a fuoco il quadro completo, unendo tasselli che fanno acquistare un senso a ciò che si vede.
Contenutisticamente I colori della passione non è un film semplice, lo si evince anche dal fatto che una singola visione potrebbe non essere sufficiente per cogliere tutte le sfumature. Al primo impatto la trama non sembra avvincere in quanto viene mostrato il pittore stesso, Bruegel, mentre dipinge il suo quadro, traendo l’ispirazione dalla vita quotidiana dei vari personaggi che affollano un villaggio, con gli unici stacchi dalla tranquillità apparente data dall’eccidio delle guardie spagnole che uccidono e appendono una manciata di poveracci in luoghi visibili del villaggio. Uno degli elementi su cui occorre concentrarsi è la forte verità nascosta dietro ogni volto disegnato da Bruegel, i suoi personaggi dipinti sembrano effettivamente corrispondere con quelli narrati da Majewski. Da qui lo stupore: riuscire a trarre molteplici storie realistiche e vivide da una semplice composizione fissa come un dipinto.
Gli attori (Rutger Hauer, Michael York e Charlotte Rampling) sono tutti di ottimo livello e ben calati nelle parti; pedine ben distribuite nel grande affresco che Majewski ha realizzato per gli spettatori. I colori della passione è un lavoro di rara qualità, alla quale val la pena dedicare il lasso temporale sotteso tra i titoli di testa e quelli di coda, rimanendo stupefatti dalle immagini impresse su pellicola. Resta solamente un dubbio: è davvero una sala cinematografica il luogo adatto a quest’opera?