DARK CITY – Alex Proyas
Un uomo si risveglia in una vasca, nudo, totalmente privo di memoria. Uscito dal bagno, trova una donna morta sul pavimento, cerca di racimolare ogni informazione su se stesso, su quello che è accaduto. Improvvisamente una telefonata, una voce che lo invita a scappare via immediatamente, stanno arrivando a prenderlo. L’uomo fugge e scopre che tutte le persone sono immerse in una sorta di sonno catartico.
La Terra è stata raggiunta da una specie aliena capace di effettuare il “tuning”, una sorta di potere mentale in grado di modellare lo spazio intorno e muovere oggetti, una comunità giunta sul nostro pianeta per evitare l’estinzione, grazie all’analisi dell’anima umana.
Dopo aver diretto il nerissimo Il corvo, interpretato dal compianto Brandon Lee, Alex Proyas resta nelle medesime atmosfere scure come la pece, ambientando in un clima da notte eterna una versione meno favolistica de La città dei bambini perduti (per le scenografie). Un mondo che si rimodella continuamente, spaesando le vite che vi si muovono dentro, mentre le loro memorie vengono depredare. La fantascienza distopica che si immerge in un climax da thriller-horror movie.
Dark city è un lavoro non perfettamente riuscito, un collage di sensazioni derivanti da tanti capolavori del passato (Metropolis, Blande runner, La signora di Shangai), mancante della scintilla necessaria a far brillare la carica necessaria, il guizzo di sceneggiatura tale da rendere il clima più teso e le situazioni più avvincenti. Dark city, comunque, riesce a giocare le proprie carte riuscendo a infondere un senso di disagio, sospeso tra un (sottile) layer fiabesco e uno (spesso) noir. Incompiuto.