ROBOCOP – Paul Verhoeven
Detroit. Un clima di profondo degrado rende l’aria irrespirabile, cascanti complessi industriali, viuzze ricolme di immondizia, cielo grigio e armi nelle mani di chi chiunque, determinano l’humus idoneo ove lasciar emergere terrore e violenza. Sembra che la speranza abbia abbandonato la città, fino all’arrivo di Robocop.
La polizia, i cui ranghi si riducono quotidianamente a causa delle morti per la strada, sembra vedere un barlume di speranza nell’arrivo di unità di polizia robotiche, apparentemente incapaci di far altro se non combattere il crimine, in modo asettico, apatico. Ma dietro le maschere di metallo si nascondono volti umani.
Assediato da un senso di sudiciume il cui tanfo si respira in ogni anfratto della città, Robocop è manifesto di un’implacabile corruzione che sta facendo marcire sino alle fondamenta un’America brutalizzata dai propri politici, che siano sindaci o capi di stato. Paul Verhoeven è conscio della potenza immaginifica del materiale che stringe tra le mani, e decide di non esaltare il messaggio con vanagloriosi sentimentalismi, quanto di immergere il plot in una melma putrida in modo da colpire senza tregua lo stomaco dello spettatore.
Gli elementi gore della vicenda sono mostrati senza remora né autocompiacimento, non lesinando arti distrutti con colpi di arma da fuoco e corpi martirizzati da innumerevoli proiettili. Il simbolismo di Robocop esplode nel timore verso un futuro incerto dietro gli occhi azzurri di Peter Weller, che solo alcuni intermezzi ironici riescono a spezzare, senza tuttavia riuscire a farci sperare in un futuro migliore.