C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK – James Gray
1921: New York City è la terra promessa per molti immigranti europei. Il vecchio continente è in subbuglio, nella morsa di due guerre mondiali e riuscire ad entrare negli USA è di fatto una questione di vita o di morte. Così è anche per Ewa (Marion Cotillard, La Vie En Rose) e la sorella Magda, polacche, che cercano la salvezza ed una nuova vita.
Ma mentre la prima viene accettata, la seconda, malata, viene messa per precauzione in quarantena; la separazione stravolge Ewa, il ricongiungimento diventa l’unico scopo della donna. Ewa viene accolta ed ospitata dall’affascinante Bruno (Joaquin Phoenix, Walk The Line), che inizialmente la introduce con cura paterna alla società e al lavoro, ma poi la incastra con ambiguità in un giro di prostituzione. L’arrivo in città dell’illusionista Orlando (Jeremy Renner, The Hurt Locker), cugino e rivale di Bruno, moltiplica le tensioni. Ewa è bella ed entrambi i galli se ne accorgono.
Chi la spunterà conquistando la bella immigrata? Troverà Ewa il modo per ricongiungersi all’amata sorellina? Ma soprattutto, aggiungo, riuscirà C’era Una Volta A New York, col suo titolo ruffiano figlio della traduzione italiana, ad attirare i nostalgici verso un melodramma sgangherato? The Immigrant – questo il titolo originale – in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes, giunge nei nostri cinema in maniera subdola, cercando di riallacciarsi a quella tradizione “Leoniana” sinonimo di qualità ed intensità emotiva in cornice storica. Il regista James Gray non è un novellino né uno sprovveduto e vanta nel curriculum due piccole perle come Little Odessa (1994) e The Yards (2000), e forse per questo diventa ancor più difficile silurare la sua nuova opera con la giusta cattiveria.
Il progetto del film va ricondotto alla biografia dello stesso regista, più precisamente al fatto di essere nipote di immigrati ucraini insediati negli States nell’epoca ritratta nel film. La sua ossessione per la storia di Ellis Island, punto d’ingresso dei proverbiali “barconi” di immigrati alla conquista della Grande Mela, si trasforma però in un film più melò che drammatico, conduttore di parecchi cliché e pochissime emozioni. Un racconto lento e faticoso, stritolato in un’atmosfera troppo rigorosa ed anacronistica dove persino gli spaccati della New York degli anni venti, potenzialmente suggestivi, sono evanescenti. La narrazione non ha appeal e la sceneggiatura (scritta dallo stesso Gray con Richard Menello) sfiora troppi temi senza approfondirne nessuno. E’ grave che la struggente separazione delle due sorelle, fulcro emotivo e scintilla del film, rimanga unicamente un pretesto per srotolare i turbamenti del triangolo amoroso.
A proposito, i main actors sono impeccabili. Soprattutto la Cotillard, accento ed occhi struggenti. Renner ha il ruolo più pittoresco e divertente, così oscura a sorpresa il gettonatissimo Phoenix, il più in ombra dei tre. Forse perché con l’esperienza dalla sua parte, si era reso conto scena dopo scena del mediocre andamento del film. Insomma, considerandolo come un accorato regalo di Mr. Gray ai nonni, potremmo passare sopra alle anonime due ore a cui ci tocca assistere. Altrimenti sono dolori. La parabola del sogno americano, su toni dismessi e senza colpi di genio, cola a picco, e vivere negli anni venti a NYC non è mai stato così noioso.