LIFE, DEATH AND SINS – Davide Pesca
Penombra. Un uomo con il viso rigato da lacrime di sangue, privo degli occhi, risale un anfratto in cerca di una luce che possa riscaldarne il corpo. Si muove indeciso, lentamente, incespicando su scalini ricolmi di sporcizia; trascina le proprie membra lungo un percorso che, istintivamente, sa di portarlo verso una nuova vita, una rinascita. Improvvisamente inizia a piangere e la sua voce è quella di un neonato, nel corpo ancora il cordone ombelicale pendente.
Folle e sperimentale. Questo è Life, death and sins, e in questi due aggettivi raccoglie croce e delizia. Delizia perché il lavoro presuppone una forte propensione ad una non-trama costruita lungo capitoli verticali, destabilizzanti e metodici nella rappresentazione della pazzia umana, una sorta di viaggio introspettivo visualizzato attraverso gli occhi (strappati via) di un pazzo. Croce perché il termine “sperimentale” non affonda le mani nella vera essenza del termine, portando alla luce quei tentativi di avanguardismo di cui il cinema ha tanto bisogno, ma riducendo ogni scena a sipario dove mostrare effetti speciali artigianali decisamente riusciti.
Davide Pesca è un regista che da molti anni è più che attivo nell’underground italiano, quello più marcio e deviato, fatto da pellicole home-made raschiate più con il sangue e il cuore che con la testa e la mano ferma. Life, death and sins, declamato dal regista stesso come il suo progetto più ambizioso, allarga le maglie della durata senza stendere un plot tale da sottendere tali minuti e preferendo puntare sulle singole situazioni, su brevi palcoscenici collegati da un testo filosofeggiante che introduce il viaggio attraverso diversi livelli. Una crescita che comincia con il distaccamento del cordone ombelicale e finisce con la presa di coscienza di se stessi di fronte ad uno specchio, seguita da un suicidio.
Pesca raccoglie le influenze nefaste (in senso positivo) degli esordi di Olaf Ittenbach, delle sperimentazioni oniriche di Lucio Fulci arrivando sino alle devianze di Rob Zombie, in un connubio che sazia il palato, esaltando d’altro canto un ricorso a soluzioni visionarie non supportate da un adeguato budget. Questo aspetto vizia la pellicola, facendone intuire le ambizioni ma crollando di fronte ad una pochezza di mezzi che non ne permette il raggiungimento. Life, death and sins riesce ad esaltare ancora una volta le abilità di Davide Pesca, mostrando al contempo una forte necessità di uscire da un contenitore plasmato per un pubblico di nicchia, portando adesso il regista nostrano ad una scelta precisa: bazzicare ad vitam nei meandri dell’underground o ragionare su un plot più corposo e lasciare spazio anche alla recitazione/dizione?