E LA CHIAMANO ESTATE – Paolo Franchi
Dino (Jean-Marc Barr) e Anna (Isabella Ferrari) sono una coppia felice, totalmente innamorati e immersi in una casa dove il bianco lucente delle pareti e la luce del sole sembrano costantemente irraggiare la loro dimensione familiare. Il loro rapporto si innesta sullo sfuggirsi carnalmente, così mentre le anime si abbracciano torbidamente i corpi si tengono a distanza.
Questa condizione, però, non è sintomo di una problematica fisica, in quanto Dino si diletta in una vita notturna ricca di sesso, ma morale. L’uomo ha perso il giovane fratello, è stato abbandonato dalla madre fuggita in Australia e via via ha cancellato la memoria del padre colpito da alzheimer, per cui vede Anna come l’unica ancora di salvataggio nel mondo, da mantenere immobile come una divinità da adorare e su cui piangere quando cala la notte.
Ispirato nel titolo dal brano di Bruno Martino, E la chiamano estate appunto, il film di Franchi vuole esplorare le sofferenze dell’anima attraverso l’atrofia dei corpi di Jean-Marc Barr e Isabella Ferrari, più volte ripresi nudi in un letto troppo ampio, presentati attraverso gesti d’amore che vedono lo sfiorare delle dita ma mai l’affondare l’uno nell’altra. Questa pulsione fremente necessita irrimediabilmente di uno sfogo più o meno brutale, così Dino si abbandona in sesso sregolato con prostitute sfigurate, coppie scambiste o donne di mezza età alquanto bruttine, mentre Anna attende e attende sino all’incontro/scontro con un giovane. Entrambi divorano le proprie “vittime” divenendo a loro volta massa errante di dolore che crede (con poco convincimento) di trovare luce altrove … perdendo la bussola e via via sfaldando quello che si possiede.
Il terzo film di Paolo Franchi, nonostante le buone premesse, si anestetizza come da lavoro di Dino rapidamente, cercando una soluzione coesa tra musica, riprese statiche, immagini traballanti di sesso e giochi di luce, senza mai trovare quel quid di sperimentazione che avrebbe disegnato il mezzo ideale per trasmettere un messaggio che, in questa forma, si perde nel vento. Il regista predilige riprese distaccate e fredde ma al contempo cerca di ammiccare verso lo spettatore con soluzioni scontate, e di sicuro una sceneggiatura farraginosa non aiuta, specialmente a causa di battute innaturali e forzate.
Una maggiore rilassatezza esecutiva mescolata a minor presunzione avrebbe aiutato. Shame è ben distante.