LA GRANDE BELLEZZA – Paolo Sorrentino
Sono rare, nella vita, quelle situazioni in cui si ha la certezza incondizionata che tutto andrà bene. La consapevolezza che emerge appena prima di una festa fra amici, di divano e popcorn con la persona giusta, di un tè a casa della nonna.
Il fatto è che quando La Grande Bellezza, sesto lungometraggio di Paolo Sorrentino (Le Conseguenze Dell’Amore, Il Divo), si apre su una rassegna di tòpoi della Capitale, potrebbe emergere la paura di un bis non richiesto di To Rome With Love (Woody Allen, 2012). Ma Sorrentino è l’equivalente del tè con la nonna, del divano, dei popcorn e della festa tra vecchi amici; in un cielo che brilla raramente, è la stella polare del cinema italiano contemporaneo.
L’anima della Roma contemporanea viene raccontata attraverso le parole e gesta dell’eccentrico scrittore Jep Gambardella (Toni Servillo, Il Divo, Una Vita Tranquilla), viveur sornione col vestito buono. Le feste che frequenta sono ossimori sociali, in bilico fra pacchiani balli di gruppi e sofisticati salotti di discussione filosofica, animati da racconti di amici sull’orlo del fallimento, pretenziose ricche signore e taciturni poeti. Jep è un uomo anziano che insegue tutto, ma non raggiunge nulla. E lo ammette candidamente. Perché “Roma è una città con molte distrazioni”, e arrivarci a ventisei anni può essere pericoloso. Quello di Jep è il ritratto affascinante ma amaro di un uomo caustico ed incompleto, col volto dell’onnipresente (basta la prima inquadratura dedicatagli, per capirne il motivo) Servillo, letteralmente sfavillante.
Sorrentino riserva però la miglior caratterizzazione, emblematica e commovente, a Romano (Carlo Verdone, Compagni Di Scuola), amico di Jep, alle soglie del fallimento: costui incarna le speranze illuse, la vita senza bussola a sessant’anni, che fa ancora più male. L’uscita di scena di Romano (uno dei momenti più incisivi di tutto il film) è poesia decadente.
Sorrentino raccoglie scorci della Capitale e li affida all’incantevole fotografia di Bigazzi (cocco, oltre che di Sorrentino, anche di registi come Soldini e Amelio): il risultato è una città fascinosa, ancor più protagonista di chi la anima, che rappresenta nel contempo un’oasi ed un tranello, che abbaglia e talvolta tradisce. Ne descrive con onesta passione vizi e meraviglie, senza mai ridurla ad una mera cartolina. Consapevole di essere in grado di gestirli, l’autore si concede un paio di acuti pacchiani e qualche situazione che poco si integra al canovaccio (nonché un deus ex machina un po’ stiracchiato); ma, ancora una volta, fa centro. Come nella scelta di personaggi e interpreti, minuziosa e vincente anche (e soprattutto) nelle scommesse più bizzarre, leggasi Ferilli, o delicate, quando si tratta di ritrarre una Serena Grandi nei fatiscenti panni di se stessa.
La barocca malinconia romana è narrata in maniera superba, ma ancor più strabiliante è la maneggevolezza con cui Sorrentino gestisce l’ambito registico, che sembra il pilota automatico di un autore sempre più simbolo del cinema italiano di valore. La magia non si arresta nemmeno sui titoli di coda, quando l’occhio (lucido) della telecamera accompagna lo spettatore lungo il Tevere, regalando l’ultimo scorcio di un “qui ed ora” triste e meraviglioso. Come Sorrentino, faccia triste e tocco meraviglioso, che a Cannes 2013 non vince nulla, eppure è sempre più la nostra grande certezza.