MIELE – Valeria Golino
Irene (Jasmine Trinca, La Meglio Gioventù, Il Caimano) sembra una ragazza ordinaria: balla, beve, ama. E viaggia. La sua destinazione frequente è il Messico, ma non ci si reca per piacere: lì acquista medicinali letali che le servono per il suo lavoro.
Irene non è una ragazza come tante, a lei si rivolgono persone malate in fase terminale, sofferenti e disperate, che hanno perso la voglia e le forze di vivere. Affidandosi ad Irene, nome in codice Miele, i clienti ricevono il farmaco essenziale, tutte le informazioni necessarie al suicidio assistito, persino la colonna sonora preferita. E’ una transazione come tante e come tale non c’è spazio per i sentimentalismi, anche se l’esito è la morte. La glaciale (e forse solo apparente) professionalità della ragazza subirà uno scossone dopo aver conosciuto un cliente anziano e tenace (Carlo Cecchi, La Scorta, Io Ballo Da Sola) con una personalità affascinante e inconsueta, che manderà in crisi il rigore lavorativo di Miele.
Il primo lungometraggio diretto da Valeria Golino (Rain Man, Frida) è l’adattamento del romanzo A Nome Tuo, scritto dal triestino Mauro Covacich, esplorazione della bizzarra routine lavorativa di una ragazza che (i motivi si sveleranno blandamente più in là) sceglie di diventare un’auspicata portatrice di morte per tutti coloro che non vogliono concedere altro tempo e sofferenze alle malattie incurabili. L’argomento, socialmente controverso, potrebbe stimolare a paragoni ingrati, ma se l’Amour di Michael Haneke è sconfinato, quello della Golino per la tematica sembra più limitato.
Così, dopo una buona prima parte, in cui ci affezioniamo al faccino un po’ cupo della Trinca e a chi richiede i suoi servigi, l’intensità emotiva si attenua ed il punto di svolta su cui il film punta tutto – vale a dire l’incontro tra Miele e l’anziano Grimaldi – è paradossalmente il nulla osta al deragliamento.
Non tecnico, perché la Golino opta sapientemente per un profilo basso ed una regia pulita senza virtuosismi, arricchendo il quadretto con una fotografia finalmente scevra dall’effetto “Cento Vetrine” e musiche ammiccanti al punto giusto (Thom Yorke e The Shins per le nuove leve, Bach e Brassens per i retrò); il problema è la metodologia con cui la regista approfondisce il tema centrale della pellicola, in un modo che non incide mai e che non emoziona, neanche nella parabola discendente di Miele, quando la piena crisi di coscienza della protagonista meriterebbe brividi e lacrime.
Il sollievo è Cecchi, il suo Ing. Grimaldi è irresistibile, divertente e profondo insieme, un convincente specchio per l’anima di Miele. Lo stesso non si può dire della Trinca, che traballa ogni volta in cui al suo personaggio è richiesta un’andatura più intensa. E l’intensità è ciò di cui il pur dignitoso film (che rappresenterà l’Italia a Cannes nel concorso “parallelo” Un Certain Regard) si dimentica; peccato non veniale, perché i presupposti tematici la richiedono come non mai.